PENSIERO E POESIA NELL’ULTIMO LEOPARDI

Sarà concesso ad un critico che serve l’attiva presenza del massimo poeta e intellettuale italiano da piú di mezzo secolo, che a lui ha dedicato la maggior parte del suo tempo lavorativo, delle sue energie intellettuali e della sua passione di uomo intero, di iniziare questo discorso in chiave scopertamente autobiografica. Non risalirò certo a qualche compitino ginnasiale e alle prime letture leopardiane nel periodo della mia fervida adolescenza nella mia città natale, Perugia, alle quali pur si legano le prime profonde, autentiche impressioni – piú personali che scolastiche – di quella grande poesia, adiuvate da tante altre letture congeniali.

Al di là delle prime impressioni leopardiane, l’impostazione autobiografica (e in parte generazionale) si addice piú direttamente alla fase dei miei diciott’anni, quando andai a studiare alla Scuola Normale di Pisa e nel ’31-32 passai ad una strenua lettura di tutto quanto era leggibile di Leopardi (e della relativa critica) e poi, nel ’33-34, mi applicai alla stesura di una tesina di terzo anno (discussa con Momigliano e poi ridiscussa, nel ’35, per un diploma normalistico, con Gentile, Russo e Pasquali) sull’ultimo periodo della lirica leopardiana, che anticipava nelle sue linee portanti, antiidilliche, anticrociane, antipuristiche e antiermetiche – meglio che un breve articolo uscito nel ’35 – il volume La nuova poetica leopardiana, uscito nell’agosto del ’47 contemporaneamente al saggio di Luporini, Leopardi progressivo.

Dunque (tenuto conto dello sviluppo del mio lungo lavoro leopardiano fino alla intera interpretazione monografica, la Protesta di Leopardi del ’73, e fino – fra tanti altri scritti leopardiani – ad un discorso tenuto qui a Castel dell’Ovo nel 1980 proprio sulla Poesia leopardiana negli anni napoletani) l’attuale occasione motiva un mio nuovo ritorno tutt’altro che sgradito su quello che fu l’argomento della mia tesina di cinquantaquattro anni fa. Cosí che ora si ripete in diversa maniera l’appuntamento ideale dato da Leopardi a quello (e ad altri della mia generazione) che era allora davvero un giovane o giovanissimo del “ventesimo secolo”, secondo un grande pensiero profetico del Leopardi rivolto al futuro e non al suo presente da cui si sapeva incompreso e forse incomprensibile, scritto nello Zibaldone il 13 aprile 1827, concluso dalla frase sintomatica “può servire per la Lettera a un giovane del ventesimo secolo” e tutto da rileggere proprio nell’ambito di questo discorso per tutte le implicazioni che esso importa o almeno suggerisce: «Congetture sopra una futura civilizzazione dei bruti, e massime di qualche specie come delle scimmie, da operarsi dagli uomini a lungo andare, come si vede che gli uomini civili hanno incivilito molte nazioni o barbare o selvagge, certo non meno feroci e forse meno ingegnose delle scimmie, specialmente di alcune specie di esse; e che insomma la civilizzazione tende naturalmente a propagarsi e a far sempre nuove conquiste, e non può star ferma, né contenersi dentro alcun termine, massime in quanto all’estensione, e finché vi siano creature civilizzabili, e associabili al gran corpo della civilizzazione, alla grande alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura e contro alle cose non intelligenti». Quel giovane del ’33-34, ora vecchio settantaquattrenne, osa ancora sentirsi destinatario, insieme agli effettivi giovani di questo scorcio del ventesimo secolo, di quella lettera che Leopardi intendeva evidentemente stendere e che del resto può in parte convergere, a nuovo e altissimo livello, con l’appello supremo della Ginestra. Le “congetture” di questo pensiero sembrano appunto preparare un aspetto della posizione leopardiana che trova sviluppo, tutt’altro che rettilineo e semplice, nel tardo periodo leopardiano attraverso un tormentoso cammino che non è solo del pensatore, ma del poeta, nella loro crescente integrazione e terminale intera fusione.

Che il rapporto pensiero-poesia (o problemi culturali e poesia) sia variamente, ma sempre presente ed essenziale per ogni vero e grande poeta, è uno dei punti qualificanti del mio metodo critico esplicitato soprattutto nel mio volume del ’63, Poetica, critica e storia letteraria, in netta polemica con il sociologismo e/o contenutismo e con la critica stilistica e formale (sino a quelle che, in nuove e nuovissime forme, possono addirittura risolvere la poesia nella consistenza autonoma dei significanti).

Ma (ed è ben significativa la stessa massiccia presenza in quel mio libro della prevalente esemplificazione leopardiana, in sede di poetica programmatica e di poetica in atto) il caso di Leopardi è eccezionalmente particolare, dato che, nella sua grandissima personalità ed opera, la forza massima del poeta e del pensatore (nonché del grande filologo), segnalata precocemente dalla formula enfatica, ma verificata in tempi recenti sempre piú vera e concreta, del “sommo filologo, sommo filosofo, sommo poeta” che ne dette il Giordani, e, a ben vedere, l’apertura stessa di una nuova critica leopardiana, in quella che fu chiamata la svolta del ’47, è anzitutto legata alla scoperta della grandezza del pensatore e soprattutto del rapporto essenziale tra la sua forza poetica e la sua forza filosofica (che solo Gentile aveva anticipato, agli inizi del ’900, parlando, per le Operette morali, del pensiero «come segreto alimento della sua poesia», in modo pur sempre dimidiato e idealistico e con la squalifica di quel pensiero risolto soprattutto in senso dell’animo e considerato, in sede filosofica, pensiero arretrato perché materialistico e illuministico). Oltreché su quella nuova angolatura si inserisce la rivendicazione della grande filologia leopardiana ad opera di Timpanaro (e piú recentemente quella della grandezza del linguista ad opera di Bolelli e Gensini) e, a mio avviso, quella, da meglio individuare, del grande teorico di poesia e del grande critico letterario. Forze tutte che interagiscono fra di loro e cooperano alla grandezza eccezionale dell’intera opera di quello che è certamente il massimo poeta moderno.

Impossibile qui ricostruire il lungo e tormentato cammino di questo rapporto sempre operante in Leopardi anche quando egli nella costruzione del suo sistema della natura e delle illusioni teoricamente lo negava.

Certo il pensiero leopardiano – variamente sfaccettato fra la tensione direttamente speculativa (il gusto del pensiero metafisico cui è condotto l’uomo deluso dalla società e quasi costretto alla pratica dell’astinenza e del disimpegno: l’Epistola al Pepoli e tanti pensieri dello Zibaldone del ’25-26), l’attrazione del vitalismo e dell’agire come supremo rimedio alla noia specie nell’epoca dominata dal «nostra vista a che val? solo a spregiarla» del Vincitore nel pallone, il disprezzo per gli «arzigogoli» della politica e la sua traduzione in calcoli statistici (la celebre e fraintesa lettera a Fanny del ’32 in cui dichiara di «aborrire la politica» – ma poi quale politica? quella machiavellica nel senso deteriore del termine, non quella fondatrice della “polis” rimpianta nell’antichità ed essenzialmente prospettata fra Paralipomeni e Ginestra), l’attrazione del «nulla» (che fece scattare la celebre formula del Vossler nel confronto con Hölderlin: il religioso amante del tutto, Leopardi il religioso amante del nulla) se considerato senza scansioni cronologiche essenziali, – è comunque fortemente una filosofia per la vita (e per la morte come risoluzione scellerata o liberatrice, ma in ogni caso assolutamente terminale e totale che la natura assegna agli uomini), una filosofia a costante fondo morale. Sicché non parrà inutile aver fortemente rilevato (a costo di citazioni ben note) questa maturazione estrema della personalità leopardiana e quindi del suo comportamento e delle sue persuasioni, della sua filosofia «dolorosa, ma vera», quale si delinea nel periodo successivo al ’30 e fino alla morte.

Qui è il nodo sempre piú stringente fra il salto di qualità e la continuità sotterranea fra il pensiero maturato e la nuova poetica e poesia. Ne nasce appunto un piú stretto nesso fra pensiero e poesia, che, proprio al termine della grande stagione fiorentina trova la sua base personale ed etica nel celebre pensiero LXXXII[1]che si attaglia perfettamente ad una esperienza (quella amorosa) già consumata e fruttificante entro l’estremo periodo napoletano, base del diramarsi e convergere in una suprema forma di esperienza personale persino vissuta: una forma di esperienza che fra l’altro sostiene, nell’unico documento in prosa di questo periodo (a parte le lettere), il rinnovamento e l’organizzazione dello Zibaldone, integrandolo con nuovi e piú importanti pensieri in quel libro dei Pensieri che egli chiamava, in una lettera programmatica al De Sinner del 2 marzo 1837 (a pochi mesi dalla morte), «Un volume inédit sur les caractères des hommes et de leur conduite dans la Société», cosí ben studiato in un suo libro dalla mia allieva Elisabetta Burchi anche nei suoi elementi propositivi in direzione della Ginestra.

Mentre la personalità del Leopardi è quella di un intellettuale (per stare alla stanca ripresa di uno schema gramsciano usato in modo piú ambiguo) “disorganico” al processo della storia concepita in maniera lineare, ma “organico” ai moti piú profondi che legano il materialismo illuministico e le sue posizioni piú radicali anche politicamente o, come io ho piú volte detto, in modo prepolitico, fondamento etico-filosofico di una diversa politica, disposto alle aperture (si pensi solo, nella vicinanza europea, a Feuerbach, ma senza misticismo, e ai messaggi piú arditi dei grandi poeti e scrittori romantici da Hölderlin a Shelley, a Puškin, allo Stendhal di Le rouge et le noir: lo spazio europeo si addice a Leopardi meglio che il ristretto scenario risorgimentale italiano) sul futuro con un’angolatura inequivoca, mal collocabile strumentalmente in una posizione politica precisa e duramente attualizzante.

Difficilmente schematizzabili sono i modi del lungo cammino che lega, nel concreto far poesia, elementi poetici ed etico-filosofici: fin dai cosiddetti primi idilli che nascono da un profondo risarcimento, sensistico e conoscitivo, dei piaceri «finiti» che offre la realtà con i piaceri dell’immaginazione, che tanto piú chiaramente collega lo sviluppo del sistema della natura e delle illusioni nelle canzoni dette appunto filosofiche del ’21-22 (e che si configurano come un intercambio fecondo fra pensiero e poesia) fino alla rottura effettiva del concetto della natura benefica, prima nel caso eccezionale dell’Ultimo canto di Saffo e poi nell’analisi filosofica stringente ed esauriente dello Zibaldone del ’23. Dove si affaccia, di fronte ad uno sbocco possibile nel nichilismo esistenzialistico, il saldo ancoraggio della prospettiva leopardiana ad un profondo sviluppo da sensismo a materialismo nelle Operette morali (battaglia demistificante in alte forme artistiche dell’antropocentrismo, del geocentrismo, del teocentrismo) e si presentano finalmente il profondo pessimismo totale del Leopardi e la sua orrenda, nuova visione della natura non madre, ma matrigna, indifferente alle pene degli uomini. E poi, dopo un prevalere del pensiero “metafisico” nel periodo di forte depressione sentimentale-poetica del ’25-26, si risale alla grande poesia dei canti pisano-recanatesi impropriamente detti grandi idilli (con ciò che la parola comporta di pacificante e consolatorio, canti che sono invece profondamente legati, fra ’28 e ’30, allo sviluppo piú tragico della crudeltà della natura nel grande pensiero dello Zibaldone del «tutto è male» e della impossibilità del piacere e della sorte comune di tutti gli esseri senzienti nell’ordine scellerato della natura: Canto notturno).

Sicché già nel ’21 (24 luglio), nello Zibaldone il Leopardi sarà costretto dalla sua stessa prassi poetica ad una risposta eccezionale alla sua domanda “come si fa la poesia?”: «Malgrado quanto ho detto dell’insociabilità dell’odierna filosofia colla poesia, gli spiriti veramente straordinari e sommi, i quali si ridono dei precetti, e delle osservazioni, e quasi dell’impossibile, e non consultano che loro stessi, potranno vincere qualunque ostacolo, ed essere sommi filosofi poetando perfettamente. Ma questa cosa, come vicina all’impossibile, non sarà che rarissima e singolare». Per poi giungere, nell’eccezionale fervore filosofico del ’23 (8 settembre), a questo essenziale pensiero, che riporto nei suoi punti culminanti: «È tanto mirabile quanto vero, che la poesia la quale cerca per sua natura e proprietà il bello, e la filosofia ch’essenzialmente ricerca il vero, cioè la cosa piú contraria al bello; sieno le facoltà piú affini tra loro, tanto che il vero poeta è sommamente disposto ad essere gran filosofo e il vero filosofo ad esser gran poeta, anzi né l’uno né l’altro non può esser nel gener suo né perfetto né grande, s’ei non partecipa piú che mediocremente dell’altro genere; quanto all’indole primitiva dell’ingegno, alla disposizione naturale, alla forza dell’immaginazione ... Le grandi verità, e massime nell’astratto e nel metafisico o nel psicologico ecc. non si scuoprono se non per un quasi entusiasmo della ragione, né da altri che da chi è capace di questo entusiasmo ... La poesia e la filosofia sono entrambe del pari, quasi le sommità dell’umano spirito, le piú nobili e le piú difficili facoltà a cui possa applicarsi l’ingegno umano».

È poi in questo estremo periodo della sua vita, fra ’33 e ’37, a Napoli, che il nesso pensiero-poesia, sempre cosí importante in Leopardi, raggiunge la sua piú stretta unione.

In questo ultimo periodo (avviato già dalla fase fiorentina) la personalità leopardiana acquista un senso alto e sicuro del proprio valore, sia delle verità di cui è sempre piú profondamente persuaso, sia della stessa sua forza creativa di cui non ha piú bisogno di esporre e discutere programmaticamente le tendenze e le giustificazioni, in sede di poetica programmatica. La via dell’analisi e della autoanalisi dello Zibaldone è definitivamente chiusa, le operette del ’32 (soprattutto il definitivo Dialogo di Tristano e di un amico) concludono l’esperienza di un’altissima prosa poetica in chiave piú interamente autobiografica, filosofico-etica (Leopardi è soprattutto il filosofo del comportamento personale e interpersonale), con l’esaltazione del proprio nuovo atteggiamento e lo sfollamento definitivo di ogni illusione, persino del rimpianto dell’«esser vissuto invano» e del dolce amaro mito della ricordanza.

Il Leopardi si misura col presente, si erge in attrito e in lotta con il suo tempo, cui si sente assolutamente superiore sin nell’impeto della passione amorosa, essa stessa riprova della sua superiorità e del suo possesso di un senso piú alto della vita da cui sgorga l’altissima poesia del ciclo fiorentino siglato da storiche, essenziali asserzioni della vita energica, eroica che ora egli possiede come verità persuasa e lirica cellula di questa poetica dell’urto con il presente e di possesso di un proprio piú alto presente: la stessa passione amorosa, ripeto, fa parte del nuovo comportamento, della nuova forza di esperienza energica ed eroica, dello scatto del pensiero del grande intellettuale, che si esalta per la propria diversità-superiorità all’umanità volgare, al suo tempo dominato dall’egoismo, dall’utilitarismo e dalla vacua retorica verbosa ed inerte, dalla viltà di fronte alla morte e al Dio crudele dell’abbozzo Ad Arimane, al “brutto / poter che, ascoso, a comun danno impera” di A se stesso: si pensi, nel sublime bando della nuova poetica, il Pensiero dominante, al preciso confronto di se stesso con il proprio tempo:

Sempre i codardi, e l’alme

ingenerose, abbiette,

ebbi in dispregio. Or punge ogni atto indegno

subito i sensi miei;

move l’alma ogni esempio

dell’umana viltà subito a sdegno.

Di questa età superba,

che di vote speranze si nutrica,

vaga di ciance e di virtú nemica:

stolta, che l’util chiede,

e inutile la vita

quindi piú sempre divenir non vede;

maggior mi sento.

e in Amore e Morte alla hölderliniana contrapposizione fra l’inerte pensiero e l’agire consapevole: il coraggio destato da amore per cui «sapiente in opre, / non in pensiero invan, siccome suole, / divien l’umana prole» e al trascinante, allucinante avvio nel finale: «erta la fronte, armato / e renitente al fato, / la man che flagellando si colora / nel mio sangue innocente / non ricolmar di lode, / non benedir, com’usa / per antica viltà l’umana gente; / ogni vana speranza onde consola / se coi fanciulli il mondo, / ogni conforto stolto / gittar da me».

La collaborazione di pensiero e poesia (giunta ad un livello cosí alto già nello stesso grande ciclo dell’amore fiorentino) corrisponde anche ai comportamenti piú aperti e scoperti di Leopardi, nei suoi rapporti con il proprio tempo e con gli altri. Ora (e questo è proprio il periodo del «qui» e dell’«or», del presente affrontato appunto hic et nunc senza rinvii accomodanti) Leopardi dice apertamente quello che pensa: cosí nelle lettere già nel periodo fiorentino e romano, si ricordi la grande lettera al De Sinner del 24 maggio ’32 in cui passa, con intenti di pubblicazione europea, dall’italiano al francese: «Ho ricevuto i fogli dell’Hesperus, dei quali vi ringrazio carissimamente. Voi dite benissimo ch’egli è assurdo l’attribuire ai miei scritti una tendenza religiosa. Quels que soient mes malheurs, qu’on a jugé à propos d’étaler et que peut-être on a un peu exagéré dans ce Journal, j’ai eu assez de courage pour ne pas chercher à en diminuer le poids ni par de frivoles espérances d’une prétendue félicité future et inconnue, ni par une lâche résignation. Mes sentiments envers la destinée ont été et sont toujours ceux que j’ai exprimés dans Bruto minore. Ç’a été par suite de ce même courage, qu’étant amené par mes recherches à une philosophie désespérante, je n’ai pas hésité a l’embrasser toute entière; tandis que de l’autre côté ce n’a été que par effet de la lâcheté des hommes, qui ont besoin d’être persuadés du mérite de l’existence, que l’on a voulu considérer mes opinions philosophiques comme le résultat de mes souffrances particulières, et que l’on s’obstine à attribuer à mes circostances matérielles ce qu’on ne doit qu’à mon entendement. Avant de mourir, je vais protester contre cette invention de la faiblesse et de la vulgarité, et prier mes lecteurs de s’attacher à détruire mes observations et mes raisonnements plutôt que d’accuser mes maladies».

Cosí rintuzza l’ipocrita attribuzione a lui dei Dialoghetti volgarmente ultrareazionari e ultrabigotti di Monaldo con avvisi da pubblicare su vari giornali e, persino sulla «Voce della verità» del turpe Francesco di Modena per chiarire – seppure in chiave piú moderata – le sue ragioni allo stesso padre: cosí scrive appunto al padre il 28 maggio ’32 con parole amaramente calibrate, ironiche fino ad un sottile moto di sdegno e tutte significative (fino all’accenno al romanzo di Manzoni che tanto piaceva a Monaldo): «In Toscana poi tutti quelli che lo credevano di Leopardi (e non di Canosa o d’altri ai quali è stato attribuito) lo credevano mio. A Lucca il libro correva sotto il mio nome. Si dice ch’egli abbia operato grandi conversioni per mezzo di questa credenza: cosí almeno mi hanno detto molti: e il duca di Modena, che probabilmente sa la verità della cosa, nondimeno dice pubblicamente che l’autore son io, che ho cambiato opinioni, che mi sono convertito, che cosí fece il Monti, che cosí fanno i bravi uomini. E dappertutto si parla di questa mia che alcuni chiamano conversione, ed altri apostasia ecc. ecc. Io ho esitato 4 mesi e infine mi sono deciso a parlare per due ragioni.

L’una, che mi è parso indegno l’usurpare in certo modo ciò che è dovuto ad altri, e massimamente a Lei. Non sono io l’uomo che sopporti di farsi bello degli altrui meriti. Se il romanzo di Manzoni fosse stato attribuito a me, io non dopo 4 mesi, ma il giorno che l’avessi saputo, avrei messo mano a smentire questa voce in tutti i Giornali. L’altra, ch’io non voglio né debbo soffrire di passare per convertito, né di essere assomigliato al Monti ecc. ecc. Io non sono stato mai né irreligioso né rivoluzionario di fatto né di massime. Se i miei principii non sono precisamente quelli che si professano ne’ Dialoghetti, e ch’io rispetto in Lei ed in chiunque li professa di buona fede, non sono stati però mai tali, ch’io dovessi né debba né voglia disapprovarli. Il mio onore esigeva ch’io dichiarassi di non aver punto mutato opinioni, e questo è ciò ch’io ho inteso di fare ed ho fatto (per quanto oggi è possibile) in alcuni giornali. In altri non mi è stato permesso».

Mentre al cugino Melchiorri in una lettera del 15 maggio 1832 esploderà, senza bisogno di ironia, di qualche smussatura e di convenzionale rispetto (proprio allora della famiglia aristocratica, come fa nella lettera al padre dal fondo pure fermissimo) e con tutta la piena di uno sdegno commosso per una ferita insopportabile e passando quasi alla tonalità dello sfogo parlato: «D’altronde io non ne posso piú. Non voglio piú comparire con questa macchia sul viso, d’aver fatto quell’infame, infamissimo, scelleratissimo libro» che nella stessa lettera qualifica come «sozzi fanatici dialogacci».

Cosí risponde al Vieusseux perché lo dica nell’ambiente fiorentino circa le ragioni presunte del suo viaggio a Roma nel ’31-32 (27 ottobre ’31): «Io ho detto costí, prima di partire, a chiunque ha voluto saperlo, e dico qui a tutti, che tornerò a Firenze, passato il freddo; e cosí sarà, se non muoio prima. Questo amerei che ripeteste a chi parla di prelature o di cappelli, cose ch’io terrei per ingiurie se fossero dette sul serio.

Ma sul serio non possono esser dette se non per volontaria menzogna, conoscendosi benissimo la mia maniera di pensare, e sapendosi ch’io non ho mai tradito i miei pensieri e i miei principii colle mie azioni».

Cosí scrive al De Sinner il 22 dicembre 1836 circa la sospensione dell’edizione Starita: «La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui ed in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto».

Cosí risponde, con acre ironia, alle lamentele del padre di incompreso sostenitore del trono e dell’altare: «I legittimi (mi permetterà di dirlo) non amano troppo che la loro causa si difenda con parole, atteso che il solo confessare che nel globo terrestre vi sia qualcuno che volga in dubbio la plenitudine dei loro diritti, è cosa che eccede di gran lunga la libertà conceduta alle penne dei mortali: oltre che essi molto saviamente preferiscono alle ragioni, a cui, bene o male, si può sempre replicare, gli argomenti del cannone e del carcere duro, ai quali i loro avversari per ora non hanno che rispondere» (19 febbraio 1836). E diviene persino impaziente e scortese come in questa lettera a Paolina da Roma (19 ottobre 1831): «Ho visto lo zio Carlo, la buona Clotilde, e Ruggiero che già spaccia protezioni, e mi promette favori con un tuono veramente originale; corro qualche pericolo prossimo di mandarlo a far f., perché ho perduto una grandissima parte della mia pazienza» (e sempre piú aspro perché ha trovato a Roma «tanta parte di canaglia recondita in tutto il resto del globo»). E a Carlotta Lenzoni Medici da Roma il 29 ottobre ’31: «Che se dessi ascolto alla noia che mi fanno questi costumi rancidi, e il veder far di cappello a preti, e il sentir parlar di eminenze e di santità, io sarei uomo da piantar qui tutte queste belle colonne e bei palazzi e belle passeggiate, e ritornarmene costí senza nemmeno aspettare il freddo, che quest’anno non par che voglia affrettarsi».

Accresciuta impazienza e soprattutto energica scoperta delle sue idee consolidate, anche quando non sarebbe stato indispensabile, ma lo esigeva il bisogno di assoluta chiarezza intellettuale-morale essenziale nei rapporti con gli amici piú cari, a scanso di ogni possibile equivoco.

Cosí in una lettera del 21 giugno ’32 al De Sinner, con affettuosa malinconia, Leopardi si adopera a chiarire un’espressione o sinceramente creduta od enfatica dell’amico svizzero: «Voi mi dite che la nostra amicizia deve durare al di là della vita. Io non so esprimervi quanto queste parole mi consolino. Sí certo, mio prezioso amico, noi ci ameremo finché durerà in noi la facoltà di amare». Chi non è portato a ricordare la celebre asserzione correttiva di Feuerbach: «Ti amerò in eterno, cioè finché avrò vita» («Ich werde Dich lieben für ewig, das heisst solange Ich lebe»)? E del resto, per lumeggiare di scorcio l’aspetto politico o prepolitico del suo comportamento etico-filosofico, fu solo un equivoco l’inserzione del nome di Leopardi fra quelli dei pericolosi liberali a Firenze, fu solo uno scrupolo di uomo timoroso e nevrotico l’accenno di un biglietto al Ranieri (prima dell’ottobre 1831) «Fa’ bene intendere al servitore di piazza che si tratta di donne e non d’altro: non potrebbe egli essere una spia? Pensaci molto.»? E nella lunga lettera da Roma (21 gennaio 1832) al Vieusseux in risposta alla richiesta di trovare collaboratori all’«Antologia» sono significativi, per la vera posizione dell’ultimo Leopardi, gli accenni all’assenza di molti possibili collaboratori da Roma e da altre città dello Stato Pontificio a causa della conseguenza dei falliti moti del ’31: «I migliori sono assenti, come sapete». I “migliori” erano dunque anche per Leopardi i carbonari partecipanti alla fallita rivoluzione dell’Italia centrale, che egli giudicherà aspramente nei Paralipomeni per la loro ingenuità e le loro spiritualistiche e ottimistiche ideologie, ma comunque – sulla scena dell’Italia del tempo – eran pure per lui “i migliori”. Egli era al di là delle posizioni di quegli uomini, non al di qua, confuso fra scettici conservatori e pessimisti inerti e totalmente disimpegnati.

Sulla base di questa nuova forza “di esperienza di sé e degli altri” (il ricordato pensiero LXXXII), il pensiero leopardiano acquista una nuova estrema sicurezza di persuasione della sua assoluta e pur ricchissima e problematica verità.

Sempre piú la ragione concreta, consapevole dei suoi stessi limiti e pericoli, diviene, nella prospettiva filosofico-morale di Leopardi, una forza demistificatrice di miti, di quelli che egli chiama «sogni e delirii della mente umana» e (seppure in proposito ci sarebbe molto da precisare entro i forti limiti di possibili accertamenti circa le letture ulteriori dei materialisti settecenteschi, le conoscenze delle nuove teorie spiritualistiche che accrescono il fecondo attrito del suo materialismo, del suo antispiritualismo: già nel Tristano aveva affermato che «l’uomo è il corpo» e da tempo aveva asserito che «la materia sente e pensa», che lo spirito è flatus vocis, che nella natura «tutto è male» e regna un ordine feroce, peggiore di ogni disordine) approda alle sue “certezze” (dietro le quali non si torna, ed oltre le quali la nozione leopardiana di ragione non cessa mai di autocriticarsi, di porsi nuovi problemi e nuovi dubbi) della caducità e fragilità dell’uomo, dell’«infinita vanità del tutto», della malvagità della natura, del naturale egoismo dell’uomo a cui però si oppone l’eroismo (e cioè non una forza trascendente, ma l’esito alto della biforcazione dell’amor proprio – senza cui non esiste la vita – in amore per gli altri, per la collettività-nazione, popolo-umanità, e diviene eroismo, come poi tornerò a precisare): la «virtú», l’opposizione degli uomini dabbene contro la lega dei birbanti (che è «il mondo», massimo disvalore cosí come è) e dei generosi contro i vili, come dice nel 1° dei Pensieri.

Mai come in questo estremo lembo disperato e fertilissimo della sua vita il pensiero leopardiano si prospetta nelle sue caratteristiche combattive, aggressive, profondamente persuaso assertore della verità che veicola nella sua poesia, che con questa e con i suoi modi espressivi si integra sempre piú entro la direzione di una poetica che non cerca enunciazioni teoriche, normative, ma sempre piú è prammatica, volta alla sua integrale realizzazione, sempre piú poetica in atto, in movimento, in fieri.

Piú che estraneo, diverso, inattuale, il pensiero leopardiano si sente superiore al regredire del suo tempo, a cui si oppone, come portatore della suprema conquista del vero “progresso” del pensiero e della eticità, cioè dell’unico filone valido dai materialisti antichi fino alla ripresa rinascimentale empirica e naturalistica, ai materialisti dell’ultimo Settecento che hanno recuperato in parte il fondo di integralità umana (corpo e mente, tutta materia che sente e pensa) e i valori che presiederono alla prima fondazione della polis civile e all’uscita dallo stato selvaggio e ferino.

Sicché attraverso le opere del periodo napoletano (dopo la nuova alta prova poetica entro e in attrito con il suo maturo, denso, articolato materialismo in Aspasia, dopo le sublimi canzoni sepolcrali con i profondi problemi esistenziali del grande materialista tutt’altro che meccanicistico) tutto il pensiero leopardiano converge in una aperta battaglia ideologico-poetica nel presente storico italiano, e con lo sguardo a tutto l’ambiente ideologico e culturale pragmatico e dunque anche politico europeo: il compromesso della monarchia costituzionale della Francia di Luigi Filippo, la cultura europea nei suoi rappresentanti e nelle sue tendenze metafisiche-sistematiche, idealistiche e neoreligiose nel quadro intellettuale, morale, comportamentale dei suoi “arretrati” anzi “regressivi” intellettuali contemporanei, quelli che in questo supremo impeto combattivo chiamerà nella Ginestra “astuti o folli”. Battaglia prima condotta con la grandiosa e a lungo sottovalutata Palinodia che scarnisce fino in fondo la visione deviante del progresso e della perfettibilità, del potere, della falsa civiltà delle macchine, della tecnologia risolutrice di tutti i problemi umani, del consumismo culturale delle gazzette che contribuisce a celare al popolo autentico, e da quelle ingannato, la vera realtà scellerata del prepotere di ceti e di vere e proprie “razze” di uomini («Sempre il buono in tristezza, il vile in festa / sempre e il ribaldo»), fino a quello che è sembrato un limite di non ritorno del suo disperato pessimismo, ben fermo nei limiti ferrei della natura universale della stessa natura umana. Battaglia poi proseguita con la satira aspra dei Nuovi credenti (che coinvolge un popolo mosso da una male indirizzata vitalità, frutto di vecchie credenze e falsi valori sollecitati interessatamente dai detentori del potere e dai loro intellettuali organici) e soprattutto con il grande capolavoro dei Paralipomeni (cito, senza falsa modestia, quello che Liana Cellerino, in un acuto suo libro, ha qualificato come «il colpo di scena della folgorante riabilitazione dei Paralipomeni da parte di Binni, nel 1947»), poema-capolavoro tanto profondamente studiato, fra altri, da Gennaro Savarese che tuttora continua a indagarne le pieghe piú riposte, i complessi riferimenti storici, filosofici e letterari.

Qui, ormai in uno sforzo poematico di grande respiro e di eccezionale inventività, pensiero e poesia si integrano sempre piú strettamente e si rinnovano utilizzando il tono sarcastico e satirico-eroicomico. Ma la tensione maggiore è proprio là dove le verità del «malpensante» acuiscono e sfondano la satira fino al grottesco, all’orrido, al macabro: interamente disvelati e fuori di ogni compromesso, in questa poesia estremamente inventiva di toni nuovi, freschissimi, di paragoni e immagini sapide di realtà e insieme allusive e screziate.

Nel poemetto un autentico pensiero si sviluppa ben al di là delle verità acquisite precedentemente da Leopardi, si confronta con le ideologie del suo tempo e con quelle di una lunga e consolidata tradizione di tipo platonico e metafisico, con un’acutezza pari alla comunicabilità ricercata come essenziale ad una filosofia che intende parlare a tutti («A tutti noi che senza colpa, ignari / né volontari al vivere abbandoni»), come superando l’ambito “elitario” precedente, ma non in populistico modo di indottrinamento interessato e sfruttatorio.

Qui si congiunge, in indissolubile integrazione, il pensiero che affronta gli ardui supremi problemi della vita e della morte, l’eticità profonda del filosofo morale (l’appassionata e disperata esaltazione della “bella virtú”: «qualor di te s’avvede / come per lieto avvenimento esulta lo spirto mio», l’epica inerente alla rappresentazione dell’eroico Rubatocchi, eroico in battaglia, eroico nel rifiutare con sdegno di vero democratico l’offerta della “dittatura”) e la grande poesia nel suo crescendo di toni e di linguaggio che sfiora espressioni da Ginestra nello scheletrico paesaggio dell’Italia preistorica, che si arricchisce enormemente in coerente direzione, sempre diretta ed allusiva alla battaglia storica e metastorica contro il potere o meglio i poteri, ma ben storica contro i granchi-austriaci di cui l’identificazione è inequivoca («Noi, disse il General, siam birri appunto / d’Europa e boia e professiam quest’arte») come quella di Francesco I (Re Senzacapo) e l’allusione (con precisi, audacissimi particolari) alla situazione del tempo: la critica della monarchia costituzionale e la livida inequivoca rievocazione della storia degli Asburgo e l’irrisione della stolta speranza nella politica francese di un intervento da parte dei topi liberalmoderati.

Rappresentazione di una situazione storica (con prese di posizione del “malpensante” Leopardi nella sua netta scelta dello “stato franco” e cioè delle repubbliche popolari) e metafora di una situazione eterna della politica machiavellica (in senso deteriore) nella sua realtà, del potere o dei poteri negatori di libertà («senza di cui la vita non è vita»): il potere assolutistico di origine feudale, il potere della classe borghese emergente (con i suoi teorici e reazionari o liberalmoderati ugualmente appoggiati al potere enorme delle credenze religiose e spiritualistiche di ogni tipo).

Leopardi non è dunque uno “sradicato” dal presente e dalla storia, non è solo consapevole della sua “inattualità”, ma è impegnato in una lotta con il presente e con lo sbagliato cammino della storia presente: è un ribelle consapevole della sua superiorità al proprio tempo, un democratico (nel senso meno partitico della parola) sia per posizione filosofica (l’enorme potenziale democratico che l’amico Timpanaro ribadiva in «New Left» del 1978: «è contenuto nel suo materialismo lucido e aggressivo»), ma anche – a questo punto – democratico non solo per la sua antica nostalgia delle repubbliche popolari greche e romane, ma per la inequivoca scelta appunto dello “stato franco”, di una repubblica fondata sulla sovranità popolare, che nella Ginestra diverrà una organizzazione comunitaria di tutti gli uomini “confederati” nella lotta contro la natura nemica e di cui si possono cogliere alcune connotazioni di rifondazione della stessa politica, della prassi sociale, di princípi che, ripeto, io ho chiamato piú volte prepolitici appunto in quanto etico-filosofico fondamento di una società che potremmo anche chiamare di “liberi ed eguali”, senza con ciò forzare le posizioni leopardiane in consonanza decisamente marxiana. Del resto, anche a chiarire il carattere tutt’altro che consolatorio ed edulcorante del pessimismo leopardiano, già nel 1948, in una recensione sul «Nuovo Corriere», organo della sinistra di Firenze, al Leopardi progressivo di Luporini, cosí osservavo al mio amico e vicino di idee:

Premetto che ogni possibile riferimento ad una dottrina “politica” mi apparirebbe (non che Luporini lo faccia con precise parole) inopportuno e che, se sono accertabili il disprezzo leopardiano per formule di compromesso liberale del suo tempo e l’affermazione di un solidarismo umano («la grande alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura e contro alle cose non intelligenti»), nel Leopardi v’era, al di là della sua lotta contro il “progressismo” liberalmoderato e spiritualistico, una tale cittadella di critica ad ogni “felicità” di organizzazione politica, ad ogni soluzione che non partisse da una prima solitudine intatta, da sconsigliare ogni riferimento troppo preciso; e, ad esempio, il finale un po’ eloquente del saggio circa il ’48 e il significato che avrebbe potuto avere per Leopardi: «Il ’48 – diceva Luporini – avrebbe certo significato qualcosa e forse molto per Leopardi. Ma non sappiamo se il ’48 dei liberali, dei moderati o dei “democratici” italiani. Egli si trovava su un’onda piú lunga».

Sí un’onda piú lunga, ma piú lunga di qualsiasi onda che approdi ad una civiltà che si consideri ottimisticamente definitiva nella sua struttura, e contro cui il Leopardi sarebbe ricorso al suo rigore assoluto di malpensante, alla sua nuda persuasione antimitica, che, lungi da ogni scetticismo di conservatore, lo rendeva piú progressivo di ogni limitata rivoluzione.

Quanto allo sviluppo del pensiero etico-filosofico, il suo materialismo ed ateismo raggiungono nei Paralipomeni alcuni consolidamenti e accertamenti essenziali o essenzialmente nuovi: l’affermazione definitiva della materia pensante donde l’assurdità di ogni al di là privilegiato degli uomini (ferocemente satireggiato in una vacua non esistenza e degli uomini e di tutte le specie animali «in un Averno» senza «premii» e senza «pene»), l’assurdità di ogni finalità provvidenziale della natura, definita come «capita! carnefice e nemica» di tutti i viventi e mortali, la conferma essenziale da parte del senso comune delle sue posizioni materialistiche ed atee.

E la poesia, che fa tutt’uno con le piú sottili pieghe delle dimostrazioni e delle prove demistificatrici mediante procedimenti stilistici di estrema novità e di lucida trasparenza e fisicità, asseconda il movimento etico-speculativo con i procedimenti piú sottili e innovativi del paradosso, dell’analogia, del tono eroicomico letterariamente espertissimo di tutta una tradizione fino al Don Juan di Byron.

Mentre i Pensieri, che in parte riutilizzano pensieri dello Zibaldone e in parte sono totalmente nuovi, rivelano profondamente la natura dell’uomo qual è, naturalmente malvagio in quanto esso stesso frutto della matrigna natura, ma aprono anche spiragli propositivi in vista della nuova società e del nuovo uomo in essa, in relazione diretta con la Ginestra.

E il nesso sempre piú stretto fra pensiero e poesia raggiunge appunto la sua suprema unione e addirittura fusione nella Ginestra. Il Tramonto della luna ne rappresenta come un complementare corollario originalissimo nelle sue lucide e scandite arcate strutturali, tutto costruito nel lungo inizio su di una similitudine e poi su di una incisiva, ironica amarissima conclusione: come un presupposto della compiuta indagine sul penosissimo inevitabile percorso biologico della vita umana, cui immaginari Dei maligni e perfidi, collocati nell’assurdo «lassú», escogitano la tortura piú crudelmente ingegnosa, prima della «sepoltura», meta finale ben materialistica dell’uomo; e cioè quella vecchiaia che Leopardi ha sempre aborrito e che qui, dopo il breve respiro della giovinezza (ma «dove ogni ben di mille pene è frutto»), poeticamente ed esistenzialmente si dispiega nella sua stringata ed esauriente diagnosi:

D’intelletti immortali

degno trovato, estremo

di tutti i mali, ritrovàr gli eterni

la vecchiezza, ove fosse

incolume il desio, la speme estinta,

secche le fonti del piacer, le pene

maggiori sempre, e non piú dato il bene.

Nella Ginestra (la piú grande poesia dell’epoca moderna: si può pensare, nella storia della musica, per assoluta tenuta di ritmo e sconvolgente impetuosità, per perenne inaudita energia ideativo-artistica, alla Nona sinfonia di Beethoven: invito ad una “gioia” che è libertà e fraternità fra tutti gli uomini) pensiero e poesia (tanto pragmatici quanto dunque “impuri”, in continuo movimento in una specie di interno crescente acquisto di verità e di poesia) trovano la loro vita indissociabile nella voce di un supremo messaggio poetico.

Cosí sconvolgente per novità di temi e di forme coerenti, cosí superiori ad ogni tradizione di pensiero e di poetica, di appello cosí profondamente demistificante e amaramente propositivo del poeta pensatore alle soglie della morte, che la critica ha stentato a lungo e a volte ancora stenta a comprenderne la grandezza e l’integralità inventiva, o riducendola a frammentaria serie di parti riflessive e di squarci di “idillio cosmico”, o mistificandola come ultima proposta di una “società idillica”, o magari fraintendendola per un messaggio propriamente cristiano o di religiosità negativa, o vedendo addirittura nell’appello della Ginestra l’invito leopardiano, nel nostro presente-futuro, alla lotta contro il “materialismo” identificato equivocamente nell’accezione volgare di una fruizione di beni e di piaceri materiali, e non come è, un’alta dottrina filosofica, che risale ad Epicuro e Lucrezio e poi alle teorie tardosettecentesche di Holbach, Helvétius, Diderot e poi al diverso materialismo di Feuerbach e al materialismo storico e dialettico di Marx ed Engels e su su fino a Gramsci, e che cosí coinvolge personalità estremamente complesse e ben capaci di pensieri e sentimenti altissimi, come lo è il grande materialista Leopardi. Per non dire anche delle sottili obiezioni alla interpretazione pessimistico-eroica della Ginestra, con le disquisizioni, variamente ingenue e sofisticate, sul significato del simbolo della odorata ginestra, simbolo per alcuni di femminilità e quindi di passività, la cui unica proposta attiva, per altri, sarebbe l’offerta del «dolcissimo profumo» recante conforto, simile a quello del suono e del canto «tra i conforti piú dolci che gli uomini possono scambiarsi nel deserto della vita». La “saggezza” della «odorata ginestra», superiore alla stoltezza degli uomini, consiste invece nel suo “eroico” rifiuto dell’orgoglio spiritualistico e della sciocca credenza in un destino privilegiato proprio dell’uomo, come individuo e come specie, e nel rifiuto insieme della rassegnazione e dell’ autocompianto: essa sa che ha avuto «e la sede e i natali» sulle aride falde del Vesuvio (e dunque nel deserto della vita) «non per voler ma per fortuna» e non crede «le frali» sue «stirpi» o dal fato «o da lei» «fatte immortali».

L’eroismo (parola che può apparire anche retorica – sia detto una volta per tutte – se non si parte dal significato che Leopardi le dà, dove, ritrovando nell’“amor proprio” la molla essenziale dell’agire e pensare dell’uomo, ne sottolinea fortemente la biforcazione in amor proprio, privatistico e utilitaristico, che diventa quel che Leopardi chiama «pestifero egoismo» «padre di tutti i vizi», e in amor proprio rivolto agli altri, al bene comune, ai «pubblici fati» e diventa “eroismo”, padre di tutte le virtú), l’eroismo, ripeto, ben si ritrova proprio nello stesso simbolo del fiore «gentile», che soffre senza orgoglio e senza viltà, e cosí porge non la sua mite consolazione, ma il suo esempio e atto altruistico («i danni altrui commiserando»), e di “compassione” (nel senso etimologico della parola) per tutti i viventi, di cui con sostanziale fermezza condivide l’inevitabile sofferenza e debolezza e la sorte inevitabilmente e definitivamente mortale.

Il simbolo trova cosí raccordo con il personaggio umano esemplare, con cui lo stesso Leopardi qui si identifica totalmente, sulla base di tutta la sua enorme esperienza della souffrance, della impossibilità della felicità e del piacere (pur necessari all’uomo e per tanto tempo perseguiti pur nella crescente certezza della loro estrema difficoltà e impossibilità) e in forza della sua consentanea esperienza moralistico-filosofica, in forza della sua stessa poetica piú matura della “lirica” tutta centrata sul poeta, non imitatore della natura, ma inventore, creatore, sulla base di sentimenti e pensieri veramente vissuti:

Nobil natura è quella

che a sollevar s’ardisce

gli occhi mortali incontra

al comun fato, e che con franca lingua,

nulla al ver detraendo,

confessa il mal che ci fu dato in sorte,

e il basso stato e frale;

quella che grande e forte

mostra se nel soffrir, né gli odii e l’ire

fraterne, ancor piú gravi

d’ogni altro danno, accresce

alle miserie sue, l’uomo incolpando

del suo dolor, ma dà la colpa a quella

che veramente è rea, che de’ mortali

madre è di parto e di voler matrigna.

Costei chiama inimica; e incontro a questa

congiunta esser pensando,

siccome è il vero, ed ordinata in pria

l’umana compagnia,

tutti fra se confederati estima

gli uomini, e tutti abbraccia

con vero amor, porgendo

valida e pronta ed aspettando aita

negli alterni perigli e nelle angosce

della guerra comune ...

A cui oppone lo stolto intellettuale spiritualista e perfettibilista, che si ritiene destinato al piacere, non volendo riconoscere la sua sicura sorte mortale, le sue inevitabili sofferenze e la sua debolezza estrema di uomo di fronte alle catastrofi naturali come l’eruzione vesuviana del 79:

Magnanimo animale

non credo io già, ma stolto,

quel che nato a perir, nutrito in pene,

dice, a goder son fatto,

e di fetido orgoglio

empie le carte, eccelsi fati e nove

felicità, quali il ciel tutto ignora,

non pur quest’orbe, promettendo in terra

a popoli che un’onda

di mar commosso, un fiato

d’aura maligna, un sotterraneo crollo

distrugge sí, che avanza

a gran pena di lor la rimembranza.

Al centro del canto è Leopardi, l’uomo e l’intellettuale, l’io poetante e pensante, il protagonista effettivo, nel presente (qui ed or – la Ginestra è il canto del qui ed or – e dunque, ripeto, nel presente tutt’altro che eluso e “contemplato alla finestra”), nel suo «secol superbo e sciocco», in aperta lotta con l’intellettuale spiritualista e ottimista; si badi bene: definito “astuto o folle”, perché Leopardi ben capiva anche l’interessata collaborazione fra quegli intellettuali e la causa delle forze reazionarie e di quelle liberalmoderate, collaborazione che mantiene nell’ignoranza o che propina menzogne al “volgo”, al popolo cui si deve invece la verità, la verità intera («nulla al ver detraendo», che è il blasone araldico piú alto di Leopardi). E questa verità è da lui non solo affermata con perentoria persuasione ed etica energica doverosità

[...] Non io

con tal vergogna scenderò sotterra;

ma il disprezzo piuttosto che si serra

di te nel petto mio,

mostrato avrò quanto si possa aperto,

ma è portata alle sue estreme e stringenti conclusioni, che per lui sono davvero definitive, testamentarie, segnate da un estremo salto di qualità rappresentato dalla loro forza intera e moltiplicata da una suprema poesia e insieme con una indubbia continuità con quanto egli era venuto elaborando nella sua complessa esperienza totale e rinnovando nell’estrema fase della sua vita: via le illusioni, via la speranza, via piacere e felicità; scontati già con la Palinodia e i Nuovi credenti e i Pensieri ogni mito di progresso puramente tecnologico e ogni illusione sulla nemica natura e sulla natura degli uomini (che sono pur prodotti della natura e della natura portano in sé istinti bassi, crudeli, egoistici), demistificati tutti i miti del presente che proseguono la via errata di un lungo passato spiritualistico, teocentrico, geocentrico, antropocentrico, e distrutte le ideologie reazionarie e moderate sino alla loro estrinsecazione nella politica italiana ed europea e nella natura stessa del “potere” nei Paralipomeni; ma qui è poi raccordato il “vero” (razional-materialistico e antiprovvidenzialistico) con il possibile e alla fine necessario amore fra gli uomini generosi e “saggi” o rieducati dalle verità leopardiane (secondo la forte sottolineatura della relazione fra la vera cultura e il senso comune già affermato nei Paralipomeni).

Il pessimismo eroico di Leopardi raggiunge ormai la sua mèta combattiva e propositiva in un’apertura verso il futuro (non perciò garantito in alcun modo), in un’offerta di “buona, amara novella”, priva di ogni afflato trionfalistico, ma sostenuta da una energica persuasione della possibilità di una via stretta ed ardua, senza alcuna certezza di esito, chiusa nei limiti di un destino di morte e di sofferenza, di rinnovate stoltezze, di catastrofi naturali terrestri e cosmiche: ma “eroica” nella sua volontà di resistenza e contrasto, di non rassegnazione, nel doveroso tentativo di rifondare sulle sue amare verità una diversa società, una vera polis comunitaria, nell’alleanza prioritaria tra i veri intellettuali, portatori di verità, e volgo (senza nessun senso classista, dispregiativo) pieno di forze potenziali autentiche, ben capace di “virtú” (la parola moralmente suprema, mai abbandonata da Leopardi):

Cosí fatti pensieri,

quando fien, come fur, palesi al volgo,

e quell’orror che primo

contra l’empia natura

strinse i mortali in social catena,

fia ricondotto in parte

da verace saper, l’onesto e il retto

conversar cittadino,

e giustizia e pietade, altra radice

avranno allor che non superbe fole,

ove fondata probità del volgo

cosí star suole in piede

quale star può quel ch’ha in error la sede.

Fra questi brani, una volta definiti prosastici e discorsivi – dove invece batte il ritmo, l’essenzialità di una poesia senza cesure – e i passi definiti “lirici”, poetici, immaginosi, magari con parti di “idillio cosmico”, illuminati da aperture di paesaggi, non c’è vera differenza, né vero profondo stridore. Non solo questi ultimi non avrebbero senso senza quelli, ma proprio l’intera Ginestra è – sull’approdo della nuova poetica dal ’30 in poi – una possente lirica sinfonica in cui il respiro vigoroso del pensiero è perfettamente fuso nella struttura poetica, costruita a lunghissime strofe tentacolari, mosse a lor volta dall’ansia dimostrativa, polemica, propositiva: struttura poetica fuori della quale quel pensiero inesausto e in continuo movimento e crescita non avrebbe un suo vero senso e valore.

Una nuova misura critica è comandata da una poesia che travolge ogni distinzione rettorica fra oratoria, declamazione polemica, poesia immaginosa e lirica. Perché il pessimismo eroico del messaggio risulta intero proprio nel potenziamento moltiplicatore di una costruzione poetica, in un ritmo (che è del pensiero e della poesia inseparabilmente) nella sua unità dinamica, in un incessante e impetuoso procedere di colata lavica e incandescente di immagini-pensieri, nello sprigionarsi inscindibile della novità e pregnanza del pensiero e di una luce ardente e funerea che è quella stessa espressa-impressa poeticamente delle verità proclamate e dell’appello agli uomini: poesia che nasce dall’attrito del pensiero, dall’attrito della materia lacerata e violentata degli stessi passi paesistici, dalla tensione del pensiero in movimento e dalla inseparabile tensione di una forza poetica profonda e incessante. Basti ripetersi, da una parte i versi citati della superiorità combattiva del grande intellettuale

[...] Non io

con tal vergogna scenderò sotterra ...

e dall’altra la sequenza formidabile della colata della lava, aperta dal paragone con il formicaio e la caduta distruttiva di un «picciol pomo», tanto poetica quanto valida a certificare la miseria degli uomini, assimilati alle formiche nell’eguale esposizione alle casuali catastrofi naturali

Come d’arbor cadendo un picciol pomo,

cui là nel tardo autunno

maturità senz’altra forza atterra,

d’un popol di formiche i dolci alberghi,

cavati in molle gleba

con gran lavoro, e l’opre

e le ricchezze che adunate a prova

con lungo affaticar l’assidua gente

avea provvidamente al tempo estivo,

schiaccia, diserta e copre

in un punto; cosí d’alto piombando,

dall’utero tonante

scagliata al ciel profondo,

di ceneri e di pomici e di sassi

notte e ruina, infusa

di bollenti ruscelli,

o pel montano fianco

furiosa tra l’erba

di liquefatti massi

e di metalli e d’infocata arena

scendendo immensa piena,

le cittadi che il mar là su l’estremo

lido aspergea, confuse

e infranse e ricoperse

in pochi istanti: onde su quelle or pasce

la capra, e città nove

sorgon dall’altra banda, a cui sgabello

son le sepolte, e le prostrate mura

L’arduo monte al suo piè quasi calpesta.

Non ha natura al seme

dell’uom piú stima o cura

che alla formica: e se piú rara in quello

che nell’altra è la strage,

non avvien ciò d’altronde

fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.

Lo stesso linguaggio intride concetti e visioni paesistiche (sempre estrinsecazione concreta di un significato concettuale) in forme che possono ben dirsi “materialistiche” per la loro scabra concretezza, per la inaudita “fisicità” del paesaggio, dei rari esseri viventi còlti nello spasimo del loro movimento («questi campi cosparsi / di ceneri infeconde, e ricoperti / dell’impietrata lava, / che sotto i passi al peregrin risona; / dove s’annida e si contorce al sole / la serpe, e dove al noto / cavernoso covil torna il coniglio»).

La forma metrica e ritmica, arditissima e lontanissima da ogni forma di poesia tradizionale e da ogni precedente poesia “filosofica”, è d’altra parte ben piú che una sola sperimentazione tecnica, è funzione del ritmo interno filosofico, etico, poetico che, ad esempio, partendo dalla contemplazione del cielo stellato e slargandosi nel vertiginoso moltiplicarsi di spazi infiniti, ne afferra e ne fa esplodere la carica riflessivo-poetica (la piccolezza della terra e dell’uomo nell’universo infinito) come sua estrema e coerente conclusione di verità espressa-impressa con un metodo che non trova riscontro nella tradizione e nella stessa precedente poesia leopardiana:

Sovente in queste rive,

che, desolate, a bruno

veste il flutto indurato, e par che ondeggi,

seggo la notte; e su la mesta landa

in purissimo azzurro

veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,

cui di lontan fa specchio

il mare, e tutto di scintille in giro

per lo vòto seren brillare il mondo.

E poi che gli occhi a quelle luci appunto,

ch’a lor sembrano un punto,

e sono immense, in guisa

che un punto a petto a lor son terra e mare

veracemente; a cui

l’uomo non pur, ma questo

globo ove l’uomo è nulla,

sconosciuto è del tutto; e quando miro

quegli ancor piú senz’alcun fin remoti

nodi quasi di stelle,

ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo

e non la terra sol, ma tutte in uno,

del numero infinite e della mole,

con l’aureo sole insiem, le nostre stelle

o sono ignote, o cosí paion come

essi alla terra, un punto

di luce nebulosa; al pensier mio

che sembri allora, o prole

dell’uomo? E rimembrando

il tuo stato quaggiú, di cui fa segno

il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,

che te signora e fine

credi tu data al Tutto, e quante volte

favoleggiar ti piacque, in questo oscuro

granel di sabbia, il qual di terra ha nome,

per tua cagion, dell’universe cose

scender gli autori, e conversar sovente

co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi

sogni rinnovellando, ai saggi insulta

fin la presente età, che in conoscenza

ed in civil costume

sembra tutte avanzar; qual moto allora,

mortal prole infelice, o qual pensiero

verso te finalmente il cor m’assale?

Non so se il riso o la pietà prevale.

Dove rime, rime al mezzo, assonanze, ripetizioni ossessive di parole (“punto” e “appunto”), usufruizione di rinnovati pensieri e immagini specie della zona piú congeniale tardosettecentesca vengono assortite con estrema spregiudicatezza, scagliate nel magma ardente della invenzione totale in cui nessuno schema retorico si frappone fra pensiero e poesia e una ultima espressione della poetica lirica leopardiana abolisce ogni forma di mediazione, nella sua assoluta inventività e creatività dell’io poetante e pensante.

Cosí si conclude la sfida ad ogni poesia mimetica, descrittiva, o “pura” e puramente immaginosa e intuitiva, sfida che ora giunge alle sue definitive conquiste.

All’effetto poetico sempre piú aveva guardato Leopardi, non tanto domandandosi (egli che fu grande poeta, grande filosofo, grande filologo, grande linguista e per me anche grande critico e metodologo: le molte acquisizioni nuove dell’enorme fascio di forze della personalità leopardiana) cosa è la poesia, quanto puntando sull’effetto della poesia e sulla sua fenomenologia relativistica e condizionata da cause tutte empiriche (si pensi al Parini ovvero della gloria) e che nello Zibaldone del ’23 conclude un vero e proprio saggio sulla unità-dualità dell’Iliade – i due filoni di Achille ed Ettore, per schematizzare al massimo una prova della sua enorme acutezza critica-metodologica – con parole inequivoche circa la natura non catartica, non consolatoria dell’effetto poetico. Il vero fine della poesia è di cagionare «nell’animo dei lettori una tempesta, un impeto, un quasi gorgogliamento di passioni» perché la poesia «ci dee sommamente muovere ed agitare e non già lasciar l’animo in riposo e in calma» e deve mettere il lettore (cui Leopardi costantemente guarda) «in attività e farlo sentire gagliardamente». «E una poesia – dice egli ancora dei drammi a lieto fine per lui assolutamente impoetici – che lascia gli affetti dei lettori o uditori in pienissimo equilibrio, si chiama poesia? produce un effetto poetico? Che altro vuol dire essere in pieno equilibrio se non essere quieti e senza tempesta né commozione alcune? e qual altro è il suo proprio uffizio e scopo se non commuover, cosí o cosí, ma sempre commuovere gli affetti?».

Tale effetto poetico (specie se collegato ad un pensiero dello Zibaldone secondo cui «il sentimento senza la persuasione è nullo») è particolarmente raggiunto sulle soglie della morte da Leopardi con il supremo messaggio poetico della Ginestra. Chi ne ha capito l’enorme carica etico-filosofica e l’inerente enorme spessore poetico, non può uscire dalla sua lettura senza un profondo coinvolgimento di tutto il proprio essere.

Piú avanti probabilmente Leopardi non poteva andare in questo “effetto poetico” e in questa fusione di pensiero e poesia, in questo appello agli uomini e solo – se veramente dette, e a lui, come ci narra Ranieri – le ultime parole del Leopardi morente: «io non ti veggo piú» aggiungono a questa conclusione poetica suprema la suprema conferma vissuta del ginestriano «vero amor» di Leopardi, che non pensava alla propria morte e scomparsa totale, ma si rivolgeva ad una concreta e amata persona, si preoccupava di “altri” fratelli mortali: ultima espressione del suo piú intimo, vissuto altruismo-eroismo.


1 Lo riporto nei suoi tratti essenziali: «Nessuno diventa uomo innanzi di aver fatto una grande esperienza di se, la quale rivelando lui a lui medesimo, e determinando l’opinione sua intorno a se stesso, determina in qualche modo la fortuna e lo stato suo nella vita ... Il conoscimento e il possesso di se medesimi suol venire o da bisogni e infortuni o da qualche passione grande cioè forte; e per lo piú dall’amore; quando l’amore è gran passione; cosa che non accade in tutti come l’amare ... Certo all’uscire di un amor grande e passionato l’uomo conosce già mediocremente i suoi simili, fra i quali gli è convenuto aggirarsi con desiderii intensi, e con bisogni gravi e forse non provati innanzi, conosce ab esperto la natura delle passioni, poiché una di loro che arda, infiamma tutte l’altre; conosce la natura e il temperamento proprio; sa la misura delle proprie facoltà e delle proprie forze ... In fine la vita a’ suoi occhi ha un aspetto nuovo, già mutata per lui di cosa udita in veduta, e d’immaginata in reale; ed egli si sente in mezzo ad essa, forse non piú felice, ma per dir cosí, piú potente di prima, cioè piú atto a far uso di se e degli altri».